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13-10-2020
La caratterizzazione è un elemento basilare della drammaturgia.
Le azioni sono importanti perché sono le sue, quelle di un personaggio capace di farsi amare. Per questo, la caratterizzazione è un elemento basilare della drammaturgia.
La trama è un edificio, c’è sempre qualcosa di ingegneristico nella sua costruzione. Esistono griglie e regole che ci possono anche sembrare invadenti ma che ci aiutano a non perdere la rotta. Ciò non vale per i personaggi, riflesso delle persone vere. Metafore che hanno un unico compito, creare empatia.
Puro artigianato, sul quale possiamo accendere i riflettori, semplicemente suggerendo e spingendo alla riflessione.
Tentiamo una strada, con 5 consigli da manuale.
Gli esseri umani sono complessi, anche quelli che ci appaiono semplici. Ognuno di noi è un labirinto ed è difficile trovare l’uscita. Dunque, la prima cosa da evitare è trasformare i nostri personaggi in stereotipi. Luci e ombre, elementi di normalità e di difformità. Ogni scarto può essere utile se l’obiettivo è complicare il personaggio, renderlo credibile e il più simile possibile ad una persona vera.
Un personaggio non dovrebbe mai essere completamente buono o completamente cattivo, la storia del cinema l’ha ampiamente dimostrato. Pensiamo ad Hannibal Lecter, quello interpretato da Anthony Hopkins ne "Il silenzio degli innocenti" di Jonathan Demme. Hannibal è un sanguinario assassino, uccide le sue vittime e poi le divora. Ma nell’economia del film egli mantiene un ruolo protettivo nei confronti di Jodie Foster, la protagonista Clarice e, quindi, ci risulta gradito. Viceversa il dottor Chilton, direttore della prigione in cui Lecter è custodito, è un personaggio monodimensionale. Più tormenta Lecter più ci risulta odioso.
La spina dorsale di una sceneggiatura è costituita dal legame che s’instaura tra un protagonista e un obiettivo, un legame il cui tratto più evidente è costituito dal desiderio, dalla volontà del protagonista di raggiungerlo.
Insomma, ci vuole una buona e condivisibile motivazione perché l’obiettivo del personaggio diventi importante anche per il pubblico.
Ancora una volta ci aiutano quei personaggi che non hanno tratti moralmente edificanti, perché un’ottima motivazione può farci amare anche un “carattere” negativo. Nel primo "X-Men", quello firmato da Bryan Singer, l’obiettivo di Magneto (Ian McKellen) è eliminare la razza umana. Ma perché? Quali sono le sue motivazioni? Un flashback posto all’inizio del film ce le spiega: i suoi genitori sono stati trucidati in un lager nazista dinnanzi ai suoi occhi di bambino. Come dargli torto!
Elena è la donna più bella di Troia. Robin Hood è il più abile arciere a Sherwood. Joe (Clint Eastwood) è la pistola più veloce del West in "Per un pugno di dollari". Bridget Jones (Renée Zellweger) è la donna più imbranata di Londra ne "Il diario di Bridget Jones". Nel bene, o nel male, non c’è nessuno come loro all’interno dell’universo filmico. Sono unici, non si confondono tra la massa e si fanno notare.
Nella migliore delle ipotesi, sono unici anche i co-protagonisti, una coppia o un gruppo che condivide lo stesso obiettivo. Nessuno possiede il carattere dell’altro, le abilità dell’altro, le sue aspirazioni o le paure profonde. Ognuno deve avere le proprie impronte digitali.
In fondo avviene nella vita reale, perché non dovrebbe essere così anche in un film o in una serie?
Si racconta che nella primissima stesura di "Thelma & Louise" di Ridley Scott, la sceneggiatrice (poi Premio Oscar) Callie Khouri non aveva inserito alcuna backstory. Fu il regista a ritenere che la questione andasse approfondita, e che anche il pubblico dovesse sapere cosa avesse scatenato le reazioni di Louise e perché la donna non volesse attraversare il Texas. Quella di Thelma sembrava una reazione esagerata, ma la ferita riesce a giustificarla. Un trauma non da poco, che influenza l’azione, la arricchisce, dà spessore a tema e personaggi.
La ferita è uno strumento eccezionale per scavare nell’emotività e nella profondità del personaggio. La sua assenza è uno dei problemi principali di molti film d’azione. Le loro trame sono così ricche di eventi che si fatica a trovare il tempo di aprire squarci sul passato dei personaggi. E poi arriva "Lo squalo" di Steven Spielberg. Il film lascia un attimo di tregua a Martin Brody (Roy Scheider) e ai suoi alleati, e le loro cicatrici fanno il resto, tracciando una linea tra presente e passato.
Senza un arco di trasformazione del personaggio non si comprenderebbero tutti i suoi fallimenti, non troverebbe una giustificazione il tempo da lui speso per raggiungere l’obiettivo. Otterrebbe ogni cosa troppo presto se fosse già completamente consapevole, se avesse sin dal principio ogni risposta, se possedesse già la forza necessaria.
Per questa e per altre ragioni, la maggior parte delle storie mette in scena un arco di trasformazione del personaggio.
Per molti teorici americani tutta la struttura drammaturgica si regge su questa trasformazione. Ma sappiamo quali sono i loro modelli: la tragedia greca e il mito, dove c’è sempre una crescita e un cambiamento. La grande lezione che ci regalano i personaggi è che si può cambiare, farlo in meglio e in ogni genere di film. Prendiamo ad esempio "Jurassic Park". A prima vista sembra essere strutturato interamente intorno all’attacco dei dinosauri. Ma, in realtà, viene tracciato un arco di trasformazione. Inizialmente, Alan Grant (Sam Neill) detesta i bambini, odia l’idea stessa di poter diventare genitore. Alla fine del dramma rischia la sua vita pur di proteggerli e la trasformazione è servita.
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