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14-06-2024
Usare il dialogo alla stregua di una scialuppa di salvataggio è l’errore più frequente che compiono gli aspiranti sceneggiatori.
Scriveva il grande regista e produttore cinematografico Alfred Hitchcock: “Con il trionfo del dialogo il cinema si è cristallizzato nel teatro. I personaggi sono in taxi e parlano; stanno dentro l’automobile e fanno l’amore, e continuano a parlare. Si perde lo stile cinematografico. Credo all’arte cinematografica. Non credo ai dialoghi.”
Scrivere un dialogo è il modo più semplice per riempire cento pagine. Ma cosa contano cento pagine se alla base non è stato fatto nessun lavoro di caratterizzazione, strutturazione, preparazione e concepimento dell’attività?
Usare il dialogo alla stregua di una scialuppa di salvataggio è l’errore più frequente che compiono gli aspiranti sceneggiatori. E, invece, al cinema, ma anche nella televisione complessa di questo nostro presente, dovrebbe essere considerato come l’ultimo tra gli strumenti drammatici, dovrebbe entrare inscena solo quando tutto il resto è già stato stabilito, si dovrebbe utilizzare come ultima possibilità quando non si può ricorrere a nient’altro. Perché è lo strumento meno efficace!
Nella drammaturgia, il linguaggio delle scene, il linguaggio delle azioni e il linguaggio dei gesti sono molto più carichi di senso, molto più vicini al mezzo cinematografico. Ma, in fondo, è vero sia per il cinema che per il teatro: i gesti e le azioni sono più eloquenti delle parole anche nella vita reale.
Ecco allora 5 regole che riguardano i dialoghi da non dimenticare, tra il cinema e la televisione.
È necessaria una buona trama quanto necessario è un buon personaggio. Solo un conflitto crescente produrrà un dialogo plausibile. I dialoghi si alimentano di conflitti, non riempiono buchi tra un conflitto e l’altro, vengono pronunciati durante i conflitti.
Il dialogo nasce dal personaggio e dal suo conflitto, rivela il personaggio e contribuisce a far avanzare l’azione. Aiutano la costruzione di un buon dialogo la conoscenza della personalità e del passato del personaggio, influenzeranno inevitabilmente il loro modo di esprimersi.
Il carattere di un personaggio emerge anche dal suo modo di esprimersi, di parlare. Ed esso deriva dalla sua formazione culturale, dalla sua professione, dalla sua origine regionale o nazionale. L’elaborazione di un dialogo richiede, perciò, una buona conoscenza dei linguaggi, di certe regole dialogiche, della capacità di saper imitare la realtà.
Essendo in primo luogo uno strumento di caratterizzazione, un buon dialogo non dovrebbe, dunque, essere mono-espressivo, piatto. I personaggi non dovrebbero parlare tutti nello stesso modo, ogni battuta dovrebbe essere il prodotto delle tre dimensioni di chi la pronuncia. Lasciate che ognuno si esprima nella lingua del suo ambiente, che riveli attraverso il dialogo la sua vera essenza.
Difficilmente i personaggi cinematografici parlano di ciò che stanno facendo. Per definizione, il miglior dialogo cinematografico è quello che acquista tutto il suo senso nel contesto. Piatto se preso singolarmente, ma perfetto se si considera ciò che lo precede, ciò che lo circonda e ciò che deve ancora accadere.
Vanno quindi escluse le informazioni troppo dirette e sono ben accette quelle che possono apparire marginali nel momento in cui vengono emesse e che poi rivelano un’improvvisa e gradita efficacia.
Scrive McKee nel suo “Story”: “Il dialogo non è conversazione!”.
Una conversazione (pensiamo quelle che facciamo al bar) è piena di pause, spesso è priva di consequenzialità, è ricca di ripetizioni inutili, spesso non esaurisce un argomento. In una conversazione si può parlare di qualsiasi cosa, passare repentinamente da un argomento all’altro, fare scelte mediocri di frasi e parole.
Il dialogo cinematografico dovrebbe avere il sapore della conversazione quotidiana, ma il suo contenuto dovrebbe essere ben lontano da quello di una chiacchiera normale.
“Parlano come parlano le persone comuni – ci ha lasciato detto Aristotele – ma pensano come pensano i saggi”. Meglio, dunque, utilizzare un vocabolario informale e naturale.
Ovvero? Iniziare il più vicino possibile dalla fine.
A questo servono le battute rubinetto. Una scena può cominciare in mille modi: il trillo di una sveglia, lo squillo di un telefono, l’apertura di una porta. Esistono però anche scene “prese a metà”, quando cioè l’azione è avviata e il dialogo già in corso. In questo caso l’autore deve scegliere la cosiddetta “battuta rubinetto” che inserisce lo spettatore nel pieno del dibattito.
Un buon dialogo prevede infatti diverse unità, a partire da quella di azione (serve a dire una cosa e le sue eventuali conseguenze) e di tempo (serve ad uno scopo preciso, inutile girarci troppo attorno).
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