il nostro blog
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02-05-2022
L'ultimo film della nostra ex allieva è stato selezionato al Tribeca Film Festival.
Da quando, giovanissima, Francesca Scanu è uscita dall’Accademia di Cinema e Televisione Griffith, ha rivestito molti ruoli nel cinema e nella televisione.
Produttrice (per la sua casa di produzione, la Cocoon Production), delegato di produzione, aiuto regista, script supervisor e sceneggiatrice.
Dopo aver vinto il prestigioso Premio Mattador per la Miglior sceneggiatura, essere entrata nella cinquina dei David di Donatello con il corto Per Anna e aver prodotto il lungometraggio Go Home – a casa loro di Luna Gualano, Francesca Scanu è attualmente in sala con La Santa Piccola, film scritto a quattro mani con la regista Silvia Brunelli, una storia corale ambientata nel quartiere Sanità di Napoli, selezionata come unico film italiano di questa edizione al Tribeca Film Festival.
Nel frattempo è entrata a far parte del corpo docenti dell’Accademia dove ha studiato e quando l’abbiamo incontrata le abbiamo chiesto, per cominciare, come è nato lo script del film, che ha iniziato a muovere i primi passi a Biennale College Cinema.
L’avventura de La Santa Piccola comincia nel 2019, quando i produttori della Rain Dogs, con cui io collaboro in varie vesti dal 2013, propongono alla regista Silvia Brunelli il romanzo omonimo di Vincenzo Restivo per un adattamento.
Da lì è iniziato tutto.
A Biennale College Cinema partecipano team costituiti da produttori e registi, ma Silvia aveva anche bisogno di uno sceneggiatore con cui collaborare. E così, mi hanno chiesto se avevo voglia di partecipare e, in caso di selezione, di scrivere il film e seguirlo come produttore creativo. E ho detto sì.
Da lì in poi abbiamo passato tutte le selezioni e, mese dopo mese, workshop dopo workshop, abbiamo vinto come team italiano.
È stata un'esperienza professionale e umana immensa sia per me che per la regista. È un contesto difficile, dove i tutor (produttori, sceneggiatori e script doctor di livello internazionale) ti danno feedback continui, spesso discordanti tra loro, e tu devi capire cosa ti risuona e cosa serve davvero al film. Ti costringe a selezionare e ad ascoltare le esigenze del progetto.
Come sei riuscita a coniugare scrittura e produzione?
Io e Silvia abbiamo scritto insieme in ogni fase, dal trattamento alla scaletta, dalla prima stesura all’ultima. È stato davvero un lavoro di squadra. Io, poi, sul fronte produttivo, firmo il film come delegato. Ho seguito i workshop di Biennale College come producer, facendo un lavoro sullo script che non è stato solo creativo ma anche produttivo, indirizzando tagli e accorpamenti, lavorando sul budget con Rain Dogs, individuando una società di post produzione che accettasse di lavorare con noi nonostante il micro budget (La Zona) e che grazie a un’amicizia di lunga data lo ha preso in carico dal montaggio alla colonna sonora fino alla finalizzazione a una cifra che definirla amicale è un eufemismo, trovando un esecutivo su Napoli che ci aiutasse nella parte organizzativa e logistica sul territorio (Mosaicon), seguendo i casting, la ricerca delle location, il montaggio e tanti altri aspetti che vanno dalla parte marketing alla partecipazione a Venezia.
Il film è tratto da un romanzo. Cosa vi ha colpito del libro di Vincenzo Restivo e quali difficoltà avete trovato nell'adattarlo per il grande schermo?
Il romanzo di Vincenzo ha un nucleo potentissimo, che è quello dell’amore inconfessabile di un amico nei confronti dell’altro in un contesto di rione napoletano popolare, ricco di violenza e malessere. Ha anche una scrittura vitale e cruda, che pulsa. Questo è ciò che abbiamo conservato davvero nel film. L’adattamento, poi, è stato una sfida, perché il romanzo di Vincenzo è un dramma tout court, è duro, a tratti tragico, il colore predominante è il grigio. Non c’è salvezza e non c’è miracolo.
Abbiamo capito presto che dovevamo discostarci dal testo di partenza, perché Silvia voleva fare un film pop, che facesse ridere e piangere, e il romanzo è molto tragico, brutale, indugia su cose che un dramedy non può contenere. E così abbiamo preso la nostra strada, non senza difficoltà. L’adattamento è sempre una sfida.
Nel libro, non c’è, di fatto, Annaluce, che è solo una bambina di cui ogni tanto si parla e che va incontro a un destino crudele che non vi svelo e che troverete leggendo il romanzo di Restivo. Era impensabile trarne elementi comedy. Solo Silvia Brunelli, che è davvero una visionaria e una regista coraggiosa, ci avrebbe potuto pensare. Il lavoro – enorme - è stato proprio quello di scegliere cosa tenere e cosa no, e inventare da zero un mondo che fosse pieno di colori. Il tutto con la prospettiva di un film da 150 mila euro.
Quali sono state, se ci sono state, le vostre fonti di ispirazione?
Avevamo delle reference di tono, come È stato il figlio di Daniele Ciprì o Reality di Matteo Garrone, ma anche film più legati alle tematiche sentimentali come La vita di Adele di Kechiche. In generale, però, abbiamo lavorato con molta libertà.
La storia è ambientata a Napoli. Qual era, prima del film, il tuo rapporto con questa città? Poteva essere ambientato altrove o Napoli doveva essere per forza uno dei protagonisti?
Conoscevo poco Napoli, perlopiù da turista, prima che diventasse la mia casa per mesi con La Santa Piccola.
Abbiamo pensato spesso di ambientare il film a Roma, per ragioni produttive, ma alla fine sentivamo sempre che avremmo tradito l’anima del film.
Napoli è una città piena di contraddizioni, vive in un equilibrio precario tra nobiltà e miseria, sole e vicoli ombrosi, sacro e profano. Napoli vede il mare ma al contempo ti fa sentire impossibile fuggire. Tematicamente era perfetta per il nostro film. Nessun luogo è come Napoli.
Tra sacralità e superstizione, amicizia e scoperta di sè e dei propri sentimenti... Quali sono i temi che volevate esplorare?
Volevamo parlare del conflitto tra destino e libero arbitrio. Di un ragazzo che riesce ad accettarsi e, così, a liberarsi dalle aspettative sociali, a uscire dal rione a testa alta, e di un ragazzo che è vittima della sua famiglia, di ciò da cui non è in grado di fuggire, e che resterà incastrato nel rione e nel ruolo che gli è stato assegnato. Il tema era sostanzialmente “Non sei necessariamente il luogo o la famiglia dove nasci e cresci”. Puoi scegliere chi essere.
Secondariamente, volevamo parlare della Primavera che senti, col corpo e non solo, quando ti rendi conto di esserti innamorato per la prima volta. Della scoperta sessuale, di ciò che il sesso contiene nei suoi significati più profondi di esplorazione e conoscenza di sé. Volevamo parlare di fluidità. Quando ci chiedono se Lino sia o meno omosessuale, rispondiamo che non è importante dare una risposta. Il film è molto aperto su questo, perché siamo convinte che lo siano anche i ventenni di oggi, in modo molto più sereno di quanto non fosse per noi vent’anni fa.
Come è avvenuta la scelta degli attori, tutti bravissimi?
Abbiamo fatto mesi di provini e visto decine di attori, tra cui tantissimi giovani non professionisti. La nostra base operativa era il Nuovo Teatro Sanità, una roccaforte del rione Sanità che offre il palcoscenico come alternativa alla strada a tanti ragazzi.
Vincenzo Antonucci, che interpreta Mario, vive a cento metri da lì ed è una promessa proprio di quel teatro. Francesco Pellegrino (Lino nel film) lo abbiamo trovato cercando sui social e convocato ai provini. Loro due sono stati i primi che abbiamo visto e, incredibilmente, poi sono stati anche quelli che abbiamo scelto.
Per Assia avevamo in mente un’altra attrice, ma il provino di Alessandra Mantice (alla sua prima esperienza sullo schermo) ci ha stregate, e abbiamo messo in discussione la nostra idea iniziale. La sua delicatezza e sensibilità alla fine hanno vinto.
I ruoli di Don Gennaro e Perla sono stati sempre pensati per Gianfelice Imparato e Pina di Gennaro, e abbiamo avuto la grande fortuna che loro abbiano accettato di interpretarli.
I ruoli per cui abbiamo sofferto di più sono stati quelli di Marina e di Annaluce. La prima doveva interpretare scene delicatissime, con sesso esplicito, e una recitazione sottile. Serviva un’attrice professionista, capace di sfumature profonde, ma disposta a mettersi davvero a nudo. Sara Ricci ha miracolosamente detto di sì, e per come la vedo io ha così salvato una delle scene più belle del film.
La piccola Sophia Guastaferro, che interpreta Annaluce, è stata una rivelazione. Abbiamo visto tante bambine, ma lei ha un’energia incredibile e una recettività alle indicazioni del regista sorprendente. Un fenomeno.
Il film è stato selezionato al Tribeca Film Festival. Cosa hai provato quando l’hai saputo?
Ho esultato, perché è un festival importante, ma ad essere onesta esulto per ogni selezione. Penso sempre sia straordinario che dall’altra parte del mondo qualcuno veda il nostro film. L’uscita in sala mi dà lo stesso entusiasmo, del resto.
Su cosa stai lavorando attualmente?
Aspetto l’uscita de Le ragazze non piangono di Andrea Zuliani (regista del cortometraggio Per Anna, che insieme abbiamo prodotto nel 2015) e l’inizio della pre-produzione di un film che ho scritto con il regista Giovanni Piras.
E, intanto, scrivo e faccio le mie solite altre mille cose.
Ho in sviluppo tre soggetti, con registi e produzioni diverse, ma nel frattempo continuo a lavorare come aiuto regista, ho due film in preparazione, uno per giugno e uno per settembre. E spero di superare l’esame da addestratrice cinofila.
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