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L'industria cinematografica italiana. Dalla nascita ai nostri giorni in 10 filmtutti gli articoli

L'industria cinematografica italiana in 10 film

23-09-2024

L'industria cinematografica si è sempre saputa reinventare. Ripercorriamola con 10 film.

Tra realismo, ricostruzione storica e commedia dell’arte, l’industria cinematografica italiana ha vissuto fasi
alterne, ma si è sempre saputa reinventare, rimanendo una delle cinematografie più premiate nel mondo.
Dalla nascita ai giorni nostri, da "La presa di Roma" a "La grande bellezza".

La presa di Roma (Filoteo Albertini, 1905)

Primo film dell’industria cinematografica italiana, opera di un pioniere del nostro cinema, anche fondatore della Cines, una delle nostre prime case di produzione.
Con "La presa di Roma" si apre la stagione dell’eroismo, dei filmati storici (in realtà, i primi furono realizzati nel 1896 da Vittorio Calcina e Giuseppe Filippi, collaboratori italiani dei fratelli Lumiere) e dei primi successi
internazionali.

"Gli ultimi giorni di Pompei" (1908), "Quo Vadis?" (1913), "Cabiria" e i vari Maciste: kolossal epico-storici a cui fanno da contraltare i drammi sentimentali diretti da Mario Caserini e Carmine Gallone.
Lyda Borelli, Francesca Bertini, Pina Menichelli, Emilio Ghione, Mario Bonnard e Bartolomeo Pagano (Maciste) sono i primi divi della nostra storia cinematografica. Un cinema che la prima guerra mondiale piega ma non spezza e che dovrà attendere l’avvento del sonoro per uscire dalla crisi.

Gli uomini, che mascalzoni...(Mario Camerini, 1932)

Alle superproduzioni hollywodiane, il cinema italiano risponde attraverso la commedia con canzoni e con il
filone dei telefoni bianchi (“La segretaria privata” di Goffredo Alessandrini, “La telefonista” di Nunzio
Malasomma). Variante di questo stesso filone, “Gli uomini, che mascalzoni...” di Mario Camerini sbarca alla prima Mostra del Cinema di Venezia, grazie al successo della canzone “Parlami d'amore Mariù” e ad un giovane e brillante Vittorio De Sica. Sullo sfondo c’è l’operosa Milano degli anni Trenta, in primo piano una commedia comico-sentimentale raccontata con garbo che riceve una clamorosa accoglienza.
Sono proprio Camerini e Blasetti a riportare in auge il nostro cinema e a farlo uscire da un decennio di crisi.

Scipione l’Africano (Carmine Gallone, 1937)

Una rinascita che si deve anche ad iniziative del regime fascista: il Centro Sperimentale di Cinematografia
nasce nel 1935, Cinecittà nel 1937. Un interesse finalizzato soprattutto alla propaganda, perché per Mussolini il cinema è l’arma ideale per diffondere e celebrare l’immagine del fascismo.

"Scipione l’Africano" rientra in questo progetto, esaltando la politica imperialista del regime e in particolare la Guerra in Etiopia. Qui, l’occasione la offrono Annibale e Publio Cornelio Scipione, perché la guerra per il dominio di Cartagine segna l’inizio dell’impero mondiale di Roma.
Il resto è storia, il cinema di propaganda perde il suo fascino dopo gli esiti della seconda guerra mondiale,
perde il suo potere di fascinazione anche il filone dei telefoni bianchi. Li soppiantano Totò e commedie a dir poco più realistiche e aderenti alla contemporaneità.

Ossessione (Luchino Visconti, 1943)

Ad aprire la strada al neorealismo italiano sono film come "Quattro passi tra le nuvole" di Alessandro
Blasetti, "I bambini ci guardano" di Vittorio De Sica e "Ossessione" di Luchino Visconti.
Liberamente ispirato al romanzo "Il postino suona sempre due volte" di James M. Cain, "Ossessione" fa parlare per la prima volta la critica di realismo postbellico. Attraverso la storia di due amanti disposti ad
uccidere il consorte di lei, Visconti mette in scena un’Italia in crisi e un’amarezza di fondo che non piacque
al regime. Girato nel 1942, il film fu vietato e distrutto, ma una copia del negativo sopravvisse alla guerra.
Centralità di personaggi alle prese con la vita quotidiana, impiego di ambientazioni reali, un gergo parlato
che rifugge i formalismi della lingua italiana… Una delle stagioni più acclamate del nostro cinema è già alle
porte.

Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948)

E, ancora: ricorso ad attori non professionisti e un’attenzione rivolta ad eventi recenti. Se il film manifesto del neorealismo cinematografico italiano è considerato "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, è con "Paisà" di Rossellini e "Ladri di biciclette" di De Sica che si fa cominciare il filone.

I sogni dei personaggi sono modesti e si scontrano con le macerie del dopoguerra. L’Antonio Ricci di Vittorio De Sica vuole solo una bicicletta, e con essa un lavoro e un po’ di dignità. Rappresenta l’Italia tutta, alle prese con la fame e con le conseguenze di una guerra devastante, ma pronta a rimboccarsi le maniche.
Nello stesso anno, Visconti firma "La terra trema", Rossellini racconta la storia di un tredicenne nella Berlino semidistrutta dell'immediato dopoguerra in "Germania anno zero".
Nei primi anni Cinquanta la stagione è già finita ma è destinata a rimanere immortale in eterno, assorbita e rielaborata per decenni e ancora oggi.

La dolce vita (1960)

Visconti, Antonioni, Pasolini, Fellini. Gli autori più celebrati del nostro cinema si misurano con gli anni Cinquanta e Sessanta.
Visconti si allontana da un neorealismo puro per sposare il melodramma di “Senso” (1954), “Rocco e i suoi fratelli” (1960) e “Il gattopardo” (1963).
Antonioni interpreta il disagio dell’uomo moderno e, con la complicità di Monica Vitti, realizza la quadrilogia dell’incomunicabilità (“L’avventura”. “La notte”, “L’eclisse” e “Deserto rosso”).
Pasolini debutta nel 1961 con “Accattone” (1961), portando “I ragazzi di vita” dei suoi romanzi sul grande schermo.
Quanto a Fellini, il regista de “I vitelloni” e de “Le notti di Cabiria” si misura con un realismo attento ai temi
sociali, ironico e onirico, che sfocia nei capolavori “La dolce vita” “e 8½” (Oscar come miglior film straniero).
Nell’ottavo film e mezzo di Federico Fellini (contando anche quelli co-diretti), Marcello Mastroianni, alias
Guido Anselmi, è un regista confuso alle prese con un film che non riesce a concepire. Il film nacque davvero da una crisi creativa, scandalizzò politica e Chiesa e fu un successo planetario.

La ragazza con la pistola (Mario Monicelli, 1968)

In bilico tra commedia dell’arte e realismo, la commedia all’italiana fa il suo ingresso ufficiale negli anni Cinquanta, merito di registi come Mario Monicelli e Dino Risi, e di sceneggiatori del calibro di Age & Scarpelli, Ettore Scola, Sergio Amidei e Rodolfo Sonego.
Comico e drammatico si fondono, l’intento satirico mette a nudo le contraddizioni del nostro paese e si ride storto.
L’Italia della ricostruzione, in seguito quella del dopo-boom, viene presa di mira con piglio ironico e la leggerezza è solo apparente. Questo filone mette in scena le trasformazioni in atto, dalla nascita del consumismo alle evoluzioni di costume.
Al successo di questa straordinaria commedia contribuiscono gli attori, da Alberto Sordi a Marcello Mastroianni, da Ugo Tognazzi a Vittorio Gassman e a Monica Vitti. Mario Monicelli la tira dentro con “La ragazza con la pistola”. Lei è Assunta, siciliana disposta a tutto pur di aver salvo l’onore e vola fino a Londra
per vendicare i torti subiti.
Commedia di costume, a suo modo rivoluzionaria, perché capace di denunciare i vizi e di contribuire alle rivoluzioni in atto.

Profondo rosso (Dario Argento, 1975)

Gli anni Sessanta e Settanta segnano un rinnovamento degli autori, mettono in campo un cinema di impegno civile e si misurano con i generi. Da un lato c’è Francesco Rosi e il suo cinema civile, dall’altro lo sguardo provocatorio di Marco Ferreri. Ma ci sono anche Ermanno Olmi, i fratelli Taviano, Gillo Pontecorvo, Marco Bellocchio, Elio Petri e Bernardo Bertolucci.
Sul fronte dei generi, due regalano ottimi risultati in patria e all’estero: lo spaghetti western e l’horror
all’italiana.
Il western di Sergio Leone, con la trilogia del dollaro (“Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più”
e “Il buono, il brutto, il cattivo”), ridefinisce i canoni del genere.
Sul fronte orrorifico, spicca invece Dario Argento. I modelli si chiamano Riccardo Freda e Mario Bava e i suoi film ottengono un successo internazionale. Sadismo voyeuristico, spazi claustrofobici e colonne sonore
angoscianti. “Profondo rosso” rappresenta il vertice della sua carriera e il completo passaggio dal thriller all’horror, nonché alla componente fantastica. Un insegnante di piano jazz è testimone di un omicidio e diventa egli stesso oggetto delle attenzioni di un killer, mentre i delitti si moltiplicano. Primo capitolo di una trilogia che include “Suspiria” e “Inferno”.

Caro diario (Nanni Moretti, 1993)

Dopo la parentesi della commedia sexi, complice l’avvento della televisione commerciale, il settore entra in crisi. L’ossigeno arriva da attori-autori spesso provenienti dalla tv stessa, che tra gli anni Ottanta e Novanta rigenerano la commedia italiana. Massimo Troisi, Roberto Benigni, Carlo Verdone, Leonardo Pieraccioni e il trio Aldo, Giovanni e Giacomo, tanto per intenderci.
Più lontano dal cinema commerciale si tiene Nanni Moretti, capace di uno stile innovativo e di un personale codice umoristico. “Caro diario” è un successo di pubblico e di critica, sceglie una struttura episodica cara
alla commedia all’italiana e fa ridere e commuovere allo stesso tempo. Sulla sua vespa, Moretti percorre le
strade deserte dell’estate romana, tra un’isola e l’altra delle Eolie, per riflettere sul presente di questo nostro paese.
Sono ancora gli autori a fare la storia, da Giuseppe Tornatore (Oscar come miglior film straniero grazie a
“Nuovo cinema Paradiso”) a Gabriele Salvatores (l’unico a misurarsi anche con la gabbia dei generi), da Gianni Amelio a Marco Tullio Giordana.
Stessa generazione, stili diversi e in comune la capacità di sintonizzarsi sugli umori del pubblico.

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013)

Rare incursioni nei generi, tanta commedia, ancora attori-autori (come Checco Zalone) e un cinema che è espressione d’autore anche in questo primo ventennio di secolo.
Tra gli autori più interessanti ci sono Ferzan Opzetek, Luca Guadagnino, Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Il suo Oscar per “La grande bellezza” ha fatto parlare di rinascimento del nostro cinema.
Un cinema che però ancora incappa in commedie non sempre all’altezza, che fanno il verso senza riuscirci alla celebrata commedia degli anni Sessanta. Il genere ha trovato in alcuni registi i suoi autori: da Lorenzo Bianchini a Daniele Misischia (uscito dalla nostra Accademia), da Federico Zampaglione all’intramontabile Dario Argento. Senza dimenticare Gabriele Mainetti (“Lo chiamavano Jeeg Robot”, “Freaks Out”), regista di genere dal piglio internazionale.
In attesa di conoscere l’esito degli imminenti premi Oscar, e de “La mano di Dio” di Paolo Sorrentino (in lizza come miglior film straniero), possiamo affermare che il Covid non ha fermato le produzioni nostrane, sempre più intrecciate con le piattaforme in streaming Netflix e Amazon, giganti che hanno cambiato le regole del gioco e dato nuova linfa, purtroppo a discapito delle sale cinematografiche.

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