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Intervista alla sceneggiatrice Daniela Mitta

06-12-2021

Intervista di Cristina Borsatti all'ex allieva Daniela Mitta, talentuosa sceneggiatrice.

L’ultima storia a cui ha lavorato è stata un successo. Si tratta di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, fortunata docu-serie andata in onda su Netflix.
A dieci anni dall’Accademia Griffith, dove Daniela Mitta si è diplomata in sceneggiatura e regia, questa talentuosa e giovane sceneggiatrice ha un curriculum di tutto rispetto, passione e capacità da vendere, tanti progetti portati a termine e altrettanti in lavorazione. Facciamo il punto sulla sua carriera, anche per comprendere cosa serve per affrontare difficoltà e bellezza del suo straordinario mestiere.

Partiamo dalle soddisfazioni più recenti. Nei titoli di coda di "SanPa figuri" come Assistente alla Scrittura. Nella pratica, cosa hai fatto?

SanpaHo cominciato facendo trascrizioni, portando su carta parte del repertorio che era stato raccolto. Ma più mi infilavo nella storia, più vedevo il progetto, dunque è accaduta una cosa non prevista, ho cominciato a supportare gli autori. Sul set ho fatto la segretaria di edizione, non nel senso più classico del termine, fortunatamente. So che sarei la peggiore segretaria di edizione del mondo. Diciamo che sono stata una sorta di supervisore della continuità narrativa. In seguito, ho continuato a collaborare con autori e regista anche in fase di montaggio. Un lavoro enorme ma bellissimo, con persone straordinarie e piene di passione. Durante le pause, anche nella piscina dell’albergo, con lo sceneggiatore Paolo Bernardelli continuavamo a parlare di sceneggiatura, a discutere di personaggi. Un’esperienza incredibile.

Facciamo un passo indietro. Il tuo incontro con questo mestiere è avvenuto prima dell’Accademia. Giovanissima, hai firmato uno script, quello del lungometraggio "La strada verso casa" di Samuele Rossi. Tutto è iniziato da lì?
La strada verso casaAllora facevo la giornalista, sapevo che avrei voluto vivere di scrittura, ma nonostante avessi passione per il cinema, non conoscevo il mestiere dello sceneggiatore. Come sempre, ci sono arrivata tramite incroci imprevedibili, grazie agli incontri. Samuele Rossi stava cercando un supporto nella scrittura del suo lungometraggio e quando mi sono ritrovata tra le mani la prima stesura de La strada verso casa mi sono resa conto che sapevo metterci le mani e che mi piaceva parecchio. Allora ho capito, anche stando sul set, cosa volevo fare.

Tramite il regista Samuele Rossi incontri un ex allievo Griffith, ora regista, Marco Pellegrino. Ti iscrivi in un anno accademico pieno di talenti e con loro inizi a scrivere. Quanto conta fare squadra?
Vittorio Antonacci, Pablo Poletti, Lorenzo Pelosini e Giovanni Grandoni, con cui ancora oggi dividiamo un appartamento. Ma anche Marco Pellegrino, che ho perso e ritrovato tante volte, e il regista Giulio Nardocci, con cui ho un bellissimo rapporto d'amicizia. Il lavoro di squadra, se vuoi lavorare nel cinema e nella televisione, è fondamentale. Chi viaggia da solo non va da nessuna parte, è un lavoro che si fa insieme. Certo servono anche le basi, essendo un mestiere molto tecnico. Quelle me le ha offerte l’Accademia che, al contrario di altre scuole di cinema, mi ha anche dato l’opportunità di conoscere tutti i reparti. Perché alla Griffith non si lavora a compartimenti stagni, si gioca invece tutti insieme la partita.

Sempre in bilico tra fiction e documentario, hai lavorato spesso in team con il regista Vittorio Antonacci. "Atto di fede" vi ha portati al Torino Film Festival. Di cosa tratta questo documentario?
Atto di fedeAtto di fede è costituito da una sorta di trilogia, tre episodi dedicati a tutto quello che ruota intorno alle feste patronali. La banda, ad esempio, raccontandola senza farla suonare: come si sposta, come si prepara, come vive la festa. Da leader naturale, Vittorio è riuscito a coinvolgere molte persone e siamo arrivati anche a Torino. Risultato anche di un dialogo efficace e rispettoso nella fase di scrittura.

Recentemente con il regista Giovanni Grandoni hai vinto il Premio Solinas per il Documentario con un progetto dal titolo "Myra". Una grande soddisfazione a colpi di pitch. Come è andata?
Una storia davvero difficile da raccontare in poche parole, eppure… è andata davvero bene. Ci sono già due produzioni interessate e l’occasione di andare al Torino Film Festival per incontrare altri produttori. Concorsi, festival… io sono sempre per fare e per andare e vedere quello che succede. Si fanno incontri, si creano sinergie, si fa esperienza con il pitch, una forma di scrittura che impari facendo, oggi importantissima.

Quest’anno hai partecipato alla Biennale College nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. I progetti selezionati erano 12, una bella soddisfazione…
L’idea era di Marco Pellegrino, io sono entrata in corsa per scrivere soggetto e trattamento. Ora il progetto sta proseguendo sui suoi binari, grazie alla produttrice Giada Mazzoleni che ha base a Londra. Posso dirvi che l’esperienza alla Biennale College è stata indimenticabile, un divertente e formativo gioco al massacro, con step molto ravvicinati di scrittura, che mette sotto pressione gli autori costringendoli a dedicarsi completamente a quello per un bel po' di mesi. Inoltre, il fatto che ci siano alla fine solo 150 mila euro per realizzare il proprio film costringe a trovare soluzioni a basso budget, obbliga ad un’attenzione per la fattibilità, di cui non sempre chi scrive tiene conto, e stimola la creatività.

Ora su cosa stai lavorando?
Si tratta di una docu-serie incentrata su una famiglia pugliese dello spettacolo viaggiante, il Luna Park, un mestiere antico che crediamo di conoscere perché l’abbiamo frequentato tutti, ma di cui in verità sappiamo pochissimo. Un mondo con le sue regole, il suo gergo e la sua storia, che ora deve affrontare crescenti difficoltà e rischia di scomparire nell’indifferenza generale. Già da qualche anno grazie ad un caro amico con cui lavoro, che a quel mondo appartiene, ho la fortuna di avere accesso a quest’umanità pazzesca che sembra regolata su un’altra frequenza: concreta e sognatrice al tempo stesso, precaria ma con radici profondissime che affondano nell’aria. Mi fa sentire felicemente stupida: sfioriamo quotidianamente vite intense, difficili e bellissime che possiamo continuare a ignorare per il nostro vizio di restare in superficie; ma così il nostro sguardo non cambia mai. E come speriamo di cambiare tutto il resto, allora?

Dalla Valtellina a Roma. Cosa consiglieresti a chi, valigia in mano, viene a Roma per diventare sceneggiatore?
Se si viene dalla provincia e non si hanno contatti e conoscenze pregresse, bisogna lavorare come dannati e diventare bravissimi. Poi, certo, si devono anche incontrare le persone giuste, ma le capacità servono, eccome. Le occasioni non puoi prevederle, ma la vita devi giocartela e l’unica cosa che puoi cercare di fare e arrivarci preparato, dare ciò che nessun altro può dare. Tutto il resto se deve succedere succede. Naturalmente, consiglio di scrivere e presentare i propri progetti. Prima o poi, con i tempi biblici delle produzioni italiane e con le logiche di mercato attuali, su qualche tavolo arrivano e se il progetto è valido trova la sua strada.

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