il nostro blog
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19-12-2018
di Cristina Borsatti
Il suo primo film, “Diario di tonnara”, è stato uno dei due film italiani in Selezione Ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018. Giovanni Zoppeddu, sardo ma siciliano d’adozione, ha lavorato per cinema e televisione. La passione per il cinema documentario lo ha portato a collaborare con personalità del calibro di Roland Sejko, Gianfranco Pannone, Fabrizio Laurenti e Folco Quilici. E, dai banchi dell’Accademia di Cinema e Televisione Griffith, dove si è diplomato in Direzione della Fotografia, ad oggi, ne ha fatta di strada. Sguardo sempre vigile sulle sue passioni, grande spirito di sacrificio e umiltà.
Sono successe tante cose dopo l’Accademia Griffith. Come ti sei mosso all’inizio?
Dopo l’Accademia ho abbinato esperienze diverse, come il commesso in un negozio di fotografia, con le possibilità che mi si presentavano nel campo della Tv e del Cinema. Ho iniziato facendo l’assistente per le troupe dei Tg nazionali e di programmi tv. Ho fatto il runner per produzioni cinematografiche, l'elettricista e il macchinista, legando a tutto questo piccoli cortometraggi realizzati con i ragazzi che avevo conosciuto in Accademia. Nel Cinema e nella Tv non ho disdegnato nulla. Mi sono prestato a tutti i ruoli che mi hanno proposto, senza (quasi) mai rifiutare niente: non ho mai avuto timore di sporcarmi le mani e di mettermi alla prova in nuovi ruoli. Questo credo mi sia servito a conoscere tutti i livelli di una produzione cinematografica e televisiva. Mi ha permesso di avere una discreta apertura mentale e di rispettare il lavoro di ogni elemento della troupe, anche l'ultimo, quello dei runner.
Quanto hanno contato gli incontri avvenuti in Accademia?
Gli incontri in Accademia hanno contato tantissimo. Le prime esperienze sul campo sono arrivate da docenti che avevano avuto modo di apprezzare il mio lavoro e la mia passione, oltre che da ragazzi che avevano fatto il corso con me, e da quelli degli anni precedenti. Ricordo che il mio anno in Accademia con alcuni degli allievi di Fotografia, Regia e Montaggio trascorrevamo le giornate senza lezioni a studiare i mezzi di ripresa, a sperimentare. Ci dovevano cacciare dalle aule quando era ora di chiudere. Tutti questi ragazzi ora lavorano come me nel cinema e nella tv e manteniamo da sempre i contatti. L’Accademia è un luogo dove si conoscono persone con vissuti diversi e propensioni diverse e da queste si impara tanto, come dalle lezioni dei professionisti. Per me è stato sicuramente così.
Per molti anni hai lavorato nel programma “Road Italy”. Cosa ricordi di questa esperienza?
Ho lavorato tre stagioni a Road Italy, un programma itinerante con cui abbiamo viaggiato per tutta l'Italia, da Nord a Sud. È stata un’esperienza importante e molto formativa. Grazie a questo programma ho scoperto tradizioni, usi, costumi e meraviglie del nostro Paese. Sono riuscito ad avvicinarmi alle persone che incontravo per strada e a capire, grazie ai professionisti, come entrare nel loro mondo e scoprire, valorizzare le loro storie. Ogni singola persona che incontri per strada ha una storia interessante da raccontare. Sta a chi c’è dietro una macchina da presa saperla raccontare e renderla fruibile a tutti. Con Road Italy ho imparato a relazionarmi con una troupe ristretta di otto persone, con cui stai a stretto contatto per due, tre mesi e non è sempre una passeggiata. Ognuno ha i suoi momenti di tensione, la sua storia personale e per vivere 90 giorni così è necessario sapersi gestire e gestire umori e situazioni. La riuscita del progetto viene prima di qualsiasi altra sfumatura personale.
Nel 2010 hai partecipato alle riprese del documentario “L’ultimo volo” di Folco Quilici. Cosa ha significato l’incontro con questo grande documentarista?
Quando ho conosciuto Folco avevo già deciso che il documentario sarebbe stata la mia strada. Folco era una di quelle persone che raccontava sempre, è stato un grande documentarista, che all’epoca voleva dire essere un po’ esploratore, un po’ avventuriero. Oggi conosciamo tutto e spesso sappiamo cosa troveremo alla fine del nostro viaggio. Ma, in passato fare un documentario rappresentava un salto nel buio, ti permetteva di arrivare in zone poco conosciute o misteriose, ricche di possibili imprevisti. I documentaristi giravano con macchine da presa e pellicola quindi era tutto più complicato. Immaginate di gestire i rapporti con una tribù che vede per la prima volta una macchina da presa e magari ti vede arrivare paracadutato da un aereo! Stare vicino a persone come lui per me è stato importante, studi ogni singolo movimento, impari da ogni gesto, cerchi di dare il massimo per contribuire in maniera seria e importante. E, quando la loro attenzione si rivolge a te, hai ottenuto la tua migliore lezione. Uno dei suoi insegnamenti fondamentali per me è stato che per raccontare qualsiasi cosa devi raccontare l’uomo che la vive. Un concetto semplice ma estremamente profondo.
In seguito c’è stato ancora il documentario nella tua carriera, sei stato operatore di ripresa per Fabrizio Laurenti, Roland Sejko, Gianfranco Pannone. Cosa rappresenta per te “Il cinema del reale”?
Mi ha sempre affascinato, in particolare mi ha sempre colpito il documentario d'autore. Spesso si collega erroneamente il documentario a quello che vediamo in tv, fatto di interviste e racconto di qualcosa in forma di cronaca fredda. In realtà il documentario è ben altro. È una forma cinematografica e artistica che può partire da una lettera, da un diario, da una storia personale. Ogni singola storia ci può raccontare qualcosa di più grande. In quest'epoca poi, in cui il cinema si allontana molto dalla realtà, il documentario sta riconquistando il suo spazio. Le persone hanno bisogno di storie vicine al loro vissuto che spesso il cinema si dimentica di raccontare. Con tutti i documentaristi con cui ho lavorato ho avuto un buon rapporto e mi hanno insegnato qualcosa: Laurenti, Sejko e Pannone sono tutti registi che partono da storie per raccontare qualcosa di più grande. Sicuramente uno dei più importanti per me, con cui poi siamo diventati molto amici, è Roland Sejko. Lui mi ha insegnato tanto su come riuscire a far appassionare una troupe, come renderla partecipe del tuo progetto e, soprattutto, mi ha fatto capire quanto le immagini di repertorio di un archivio siano vive e ci raccontino sempre qualcosa di più di quello che si vede. Mi ha insegnato a dargli nuova vita. Penso che ogni regista giovane dovrebbe confrontarsi con il documentario, perché puoi facilmente imparare a gestire situazioni inaspettate e a tirar fuori il meglio da una troupe e da ogni persona che incontri. In questo senso, il documentario è sempre una nuova scoperta.
“Diario di Tonnara” è il tuo primo documentario da regista. Ce ne puoi parlare? Perché hai scelto il documentario e perché i “contadini del mare”?
Dai tempi dell’Accademia mi sono subito orientato verso la forma documentaria, ma questo non esclude che sarebbe bello se riuscissi a cimentarmi anche con la fiction. Da molti anni lavoravo come operatore e direttore della fotografia, ma finché non ti trovi a fare il regista non capisci veramente le dinamiche e le difficoltà che questo ruolo comporta.
Fortunatamente, ho avuto amici e collaboratori che mi hanno aiutato molto in questo percorso di transizione, dall’ex allievo dell’Accademia Griffith, oggi Direttore della Fotografia, Claudio Marceddu, al montatore Luca Onorati e al regista Roland Sejko, che mi hanno spronato a fare sempre meglio e di più.
Ho scoperto i “contadini del mare” quasi per caso, rimanendo affascinato dalle vecchie strutture di tonnara. Quando ho iniziato a conoscere i tonnaroti, i rais e lo scrittore Ninni Ravazza mi si è spalancato davanti un mondo, fatto di tradizioni, riti e necessità di sostentamento. La tonnara è una storia italiana, un mondo affascinante che racchiude in sé tutto quello che eravamo noi italiani e che abbiamo perso, nel nostro percorso verso la modernità. Per citare Quilici, “racconta l’uomo”.
Il primo film, il primo festival. La Festa del Cinema di Roma ha accolto il film nella selezione ufficiale. Cos’è successo durante la kermesse capitolina?
Per me, la Festa del Cinema di Roma e la Selezione Ufficiale sono state due fulmini a ciel sereno. Sapevo che il direttore Artistico Antonio Monda aveva apprezzato il film, ma non pensavo addirittura di finire in Selezione ufficiale. Per me calcare quel red carpet è stata un’emozione unica: prima di me erano passati Vinterberg, Moore e tanti altri registi importanti. È stato un grande riconoscimento per il lavoro svolto sia da me che da tutti i miei collaboratori, e i complimenti del direttore Monda ne sono stati una riprova. La critica ha accolto molto bene il film e non pensavo di arrivare così lontano con il primo lavoro tutto mio. Per questo devo ringraziare anche l’Istituto Luce, il presidente Roberto Cicutto, il direttore Enrico Bufalini e la direttrice di produzione Maura Cosenza. Mi hanno sostenuto e mi hanno lasciato libero di esprimermi. Tre stelline e mezzo per un documentario, il mio primo documentario, sono state un risultato incredibile. Le ho tutte appuntate sul petto.
Te le meriti davvero tutte. Ma ora cosa accadrà a “Diario di tonnara”?
“Diario di Tonnara” andrà in distribuzione i primi mesi del 2019. Distribuire documentari non è mai semplice, anche se solitamente poi il pubblico risponde molto bene. Spero possa essere visto soprattutto dai ragazzi e dagli studenti, perché è uno spaccato della nostra storia e delle nostre tradizioni che difficilmente i giovani hanno occasione di conoscere. Con “Diario di Tonnara” ho cercato - per quanto io sia giovane - di dar vita ad un “diario”. Ad un film che raccoglie la memoria perduta, che racchiude la storia, la nostra storia.
Quali i tuoi imminenti progetti?
Sto lavorando su un nuovo progetto documentaristico, che in un certo qual modo si lega all’idea del mio primo lavoro. Non posso anticipare granché, ma sto scrivendo anche un soggetto per un film che spero possa andare in porto.
Cosa speri possa accadere nel tuo futuro professionale?
Spero di avere la fortuna di poter continuare a raccontare attraverso la macchina da presa, attraverso il documentario e la fiction. E mi piacerebbe insegnare, come ho iniziato a fare lo scorso anno, per riuscire a trasmettere la mia passione ai ragazzi che si avvicinano a questo mondo. Infine, mi auguro di poter conoscere e frequentare altri studiosi, autori e documentaristi, perché la forza del nostro lavoro nasce anche da un efficace e continuo brainstorming. Ogni persona che incontro aggiunge un pezzetto di cuore, di emozione, di storia, di vissuto ai miei lavori. E spero che sarà sempre così.
GIOVANNI ZOPPEDDU (BIO-FILMOGRAFIA)
Giovanni Zoppeddu si forma a Roma all’Accademia di Cinema e Televisione Griffith, come Direttore della Fotografia e successivamente come Montatore. Alla sua prima esperienza di Regia approda dopo aver lavorato nel Cinema e nella Tv e aver collaborato a diversi documentari. Nel 2010, partecipa alle riprese del documentario “L'ultimo volo” di Folco Quilici. Nel 2011, come operatore di ripresa partecipa al documentario “Il corpo del duce” di Fabrizio Laurenti, presentato al Festival di Torino. Nel 2012 lavora con Roland Sejko alle riprese del documentario “Anija - La nave”, presentato al Festival di Torino e vincitore del David di Donatello per il Miglior documentario. Nel 2016 lavora come operatore di ripresa per i documentari “Lascia stare i Santi” di Gianfranco Pannone e “Il pugile del Duce” di Tony Saccucci.
“Diario di tonnara” è il suo primo film. Ecco il trailer:
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