il nostro blog
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13-06-2022
Le donne registe non mancano, soprattutto ora.
Se i film diretti da donne nel mondo sono il 18%, in Italia sono addirittura il 9%. Dati che parlano chiaro, anche se sono in leggero aumento.
Un gender gap culturale che attraversa l’industria cinematografica a più livelli e che riguarda tutti i reparti. Ma è dove la donna diventa capo che la questione si fa più aspramente sentire.
Un problema non certo solo nazionale, se pensiamo che in oltre novant’anni di Notti degli Oscar, una sola statuetta per la Miglior regia è andata ad una donna, a Kathryn Bigelow per “The Hurt Locker”.
A sfiorarla è stata anche la nostra Lina Wertmüller, la prima donna regista candidata all’Oscar per “Pasqualino Settebellezze”. Ed era il 1977.
Le donne registe non mancano, soprattutto ora. Molte voci femminili si sono alzate negli ultimi anni. Tra passato e presente, abbiamo provato a stilare un elenco, di quelle che a nostro parere sono tra le dieci migliori di sempre.
La prima documentarista d’Italia. Cecilia Mangini (classe 1927) ha raccontato, senza fare sconti a nessuno, la condizione femminile e la vita nelle periferie.
Tra i suoi documentari ci sono i migliori del cinema italiano. Come “La canta delle Marane” (1961), l’estate di una banda di ragazzini smilzi e impuniti alla periferia della Capitale, catturati attraverso lunghi piani sequenza. Come “Essere donne” (1965), lavoro commissionatole dal PCI, in cui la regista si occupa della condizione femminile in Italia negli anni del boom economico.
Ad oggi un esempio per tutte.
La prima regista ad abbattere non poche barriere nel mondo del cinema internazionale, la prima donna ad essere nominata per l’Oscar alla regia e nel 2019 la regista che ha ricevuto l’Oscar alla carriera.
Proprio in questa occasione, Lina Wertmüller non ha potuto fare a meno di ricordare che il mondo del cinema è sempre stato dominato da personalità maschili, invitando tutti ad una riflessione.
Le sue opere, corrosive, grottesche e stravaganti, hanno fatto il giro del mondo, da “Mimì metallurgico ferito nell'onore” a “Film d'amore e d'anarchia”, da “Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto” a “Sotto... sotto... strapazzato da anomala passione”.
Tanti film di successo (“L’ospite”, “Il portiere di notte”, “Oltre la porta”, “Interno berlinese”) tutti capaci di fare scandalo.
La carriera di Liliana Cavani è stata infatti costellata di difficoltà legate alla censura e alla disapprovazione.
Sin dai suoi esordi, la regista di Carpi ha anticipato di anni il dibattito politico italiano su temi importanti come il ruolo della donna nella società, la burocrazia, la speculazione edilizia e il condizionamento culturale della Chiesa.
Regista e sceneggiatrice, dal folgorante esordio con “Mignon è partita” (1988), Francesca Archibugi ha portato sul grande schermo famiglia, figli, adolescenza e relazioni, i temi sui quali si è sempre interrogata.
Indagano il mondo dell’infanzia “Il grande cocomero” e “Verso sera”, si misurano con l’adolescenza “L’albero delle pere”, entrano all’interno della famiglia “Vivere” e “In nome del figlio”.
Dal particolare all’universale, con l’obiettivo di porsi domande sulla natura umana.
Candidata all’Oscar nel 2006 grazie a “La bestia nel cuore”, Cristina Comencini nasce e cresce in una famiglia immersa nel cinema: il padre regista Luigi, la sorella regista Francesca e la sorella scenografa Paola.
Si misura con la commedia leggera di stampo borghese (“Matrimoni”, “Liberate i pesci”, “Qualcosa di nuovo”), ma ogni tanto le sue intense storie sono venate di nero (“La fine è nota”, “Quando la notte”, “Tornare”).
Tra le giovani registe italiane una delle più internazionali. A Cannes, nel 2014, ha convinto la Giuria con il suo “Le Meraviglie”, e nel 2018 ha ottenuto il premio alla Migliore sceneggiatura per “Lazzaro Felice”.
Nastro d'argento al miglior regista esordiente con il film “Corpo celeste”, Alice Rohrwacher ad oggi ha fatto pochi film ma tutti di grande successo, solo all’apparenza dal sapore semplice, indagando la vita rurale italiana e l’animo puro dei fanciulli.
La sua casa è la commedia, contaminata sempre con altri generi.
L’esordio nel 1997 con “Tano da morire” è un successo, simile a quello del successivo “Sud Side Stori”, all’apparenza commedie musicali, capaci però di ironizzare e riflettere su temi importanti come la mafia e lo sfruttamento dell’immigrazione.
Regista libera e sperimentale, Roberta Torre ha poi fatto incursioni nel dramma
(“Angela”) e nel noir (“Mare nero”).
Candidata nel 1996 all’Oscar con “La mia generazione”, uno dei quattro film di finzione da lei girati (gli altri sono “Ambrogio”, “Domenica” e “SignorinaEffe”), Wilma Labate ha dedicato gran parte della sua carriera al cinema del reale.
Sensibilità militante ha realizzato splendidi documentari, tra cui spiccano “Lavorare stanca” e “Maledetta Mia”.
Quello di Barbara Cupisti è un cinema politico, incentrato sui diritti umani.
Dagli anni Novanta si è occupata principalmente di documentari, ponendo il suo sguardo sui teatri di guerra e sulla condizione dei meno fortunati.
Con la Trilogia degli esuli (“Esuli – Le guerre”, “Esuli – Il Tibet”, “Esuli – L’ambiente”) ha raccontato le storie di chi è costretto a vivere lontano dal proprio Paese. Con “Madri e “Womanity” ha messo in scena la forza delle donne.
Tanti i riconoscimenti, In Italia e all’estero.
Con “Tito e gli alieni”, Paola Randi si è fatta conoscere dal grande pubblico, portando il genere fantascientifico anche da noi.
La scienza resta anche in seguito la sua chiave di lettura per leggere il mondo, come nella serie tv Netflix “Luna Nera, in cui assieme a Francesca Comencini e a Susanna Nicchiarelli indaga il confine tra scienza e stregoneria.
Sua la regia del secondo capitolo della serie “La befana vien di notte”, sua la regia di “Zero”, una miniserie realizzata ancora per Netflix.
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