il nostro blog
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11-02-2025
Intervista di Cristina Borsatti alla nostra ex allieva Daniela Mitta.
Passione, carattere e un po’ di follia. Il talento di Daniela Mitta era evidente sin dai tempi dell’Accademia, dove ha seguito i corsi di sceneggiatura e di regia. Ora è su Sky, in streaming su NOW e CHILI, con la docu-serie "I re del Luna Park", scritto assieme al regista Marco Pellegrino, altro lustro dell’Accademia di Cinema e Televisione Griffith.
Luci e ombre di una famiglia di giostrai pugliesi, in quattro puntate e attraverso la formula della docu-serie. "I re del Luna Park", prodotto da Ballandi Arts, è solo l’ultimo tra i lavori scritti da Daniela Mitta, sceneggiatrice di “La strada verso casa” di Samuele Rossi, assistente alla scrittura della fortunata serie “SanPa”, per citarne alcuni. Parliamone direttamente con lei.
Io e Marco ci siamo conosciuti quindici anni fa in Toscana, su un set di Carlo Mazzacurati. All’epoca, facevo la giornalista a Ravenna, ma a tempo perso, per un caso fortunato, avevo collaborato alla scrittura di un lungometraggio ed ero entrata in crisi: delle commissioni comunali non m’importava più nulla, volevo solo scrivere i film. Così quell’estate avevo colto al volo la proposta di fare la comparsa per dare un’occhiata da vicino al baraccone. Era incredibile che tutta quella gente si occupasse tanto seriamente di una storia.
Viene la pioggia, il set si ferma e Marco, che era capocomparsa, si avvicina e ci mettiamo a parlare: mi dice molla tutto, vai a Roma, e mi consiglia la scuola che aveva fatto lui, perché ci insegnava una sceneggiatrice formidabile, una certa Cristina Borsatti… È stato come il lancio della monetina che ti fa capire cosa vuoi prima che cada. Poi ha smesso di piovere e le nostre strade si sono separate, ma sapevamo già che a un certo punto avremmo avuto a che fare di nuovo.
Sei anni fa mi chiama Giulio Beranek, e io son sempre diffidente quando mi dicono "c’è un attore che ha un progetto", ma se è amico di Marco, dico, andiamo a conoscerlo. Ci vediamo da Rosy, al Pigneto. Aveva una faccia da lupo conficcata nel bavero di un cappotto grigio, non gliene fregava un cazzo del freddo ma pativa la sedia, il supplizio di star fermo per più di tre minuti, e non parlava come un attore. Parlava come non si fa con gli estranei, senza prudenza e senza prendermi le misure (e in realtà le stava prendendo). Mi ha raccontato la sua storia, su cui lui e Marco avevano scritto un romanzo "Il re delle rane", edito da Bompiani. Volevano farne una serie e mi chiedevano di lavorarci con loro. Ho detto di sì prima che finisse la frase.
Prima di tutto la sua bruciante e assoluta necessità di raccontarla. Si sarebbe tagliato un braccio se fosse stato l’unico modo. Oltretutto è così parte di lui che può manipolarla in trenta modi diversi senza mai tradirla: una forma di fedeltà e di sicurezza che manca a tanti narratori. Comunque, la necessità è sempre il primo criterio, per me: la vita è breve, la scrittura lunga; non si dovrebbe sprecare il tempo a raccontare storie non necessarie. E in quanto spettatrice esigente, spesso frustrata, non mi piace neanche che qualcuno che non ha niente da dire ti tenga lì ad ascoltarlo.
Mi viene sempre in mente una frase che Fellini appunta lavorando al soggetto di "Giulietta degli spiriti": "E se ci fosse tornaconto per qualcuno?" Questo, che possa esserci tornaconto per qualcuno, rende una storia necessaria, e in quella di Giulio si condensava on un mucchio di roba che poteva tornare utile ad altri: un’infanzia e un’adolescenza da riscattare, fare i conti col passato perdonando gli errori propri e altrui, sbarazzarsi dei giudizi o pregiudizi degli altri, rialzarsi dopo una caduta…
Credo che ad affascinarmi sia stato questo mix fra la sua esperienza, unica, diversa e irripetibile, di crescere e vivere fra i mestieri del Luna Park di famiglia e l’universalità dei temi che si portava dietro. Io vengo da tutt’altro contesto e ho tutt’altra storia, ma mi sono rispecchiata spesso e imprevedibilmente nella sua. Questo era in fondo uno dei nostri obiettivi: portare lo spettatore a riconoscere che fra noi e l’altro, quello che per pigrizia o ignoranza chiamiamo “diverso”, non c’è nessuna differenza. Se non è necessario questo...
In realtà, l’abbiamo usato come punto di partenza per sviluppare una serie di finzione quando ancora l’ipotesi docuserie, comunque da sempre sul piatto, non si era concretizzata. Abbiamo lavorato su una Bibbia di serie in dieci episodi che è stata poi opzionata ed è rimasta ferma due anni. Nel frattempo, però, è arrivato l’interessamento di Ballandi per la docuserie e a quel punto eravamo già allineati: con Giulio era nata un’amicizia, ero stata più volte ospite della sua famiglia al terreno di Lama, a Taranto, avevo dormito in un campino, familiarizzato con il gergo dei Dritti, conosciuto Ketty, Vlado, Manola, nonna Antonietta e nonno Giulio... I racconti mirabolanti della loro vita, del viaggio e dei mestieri si sono accumulati in modo spontaneo anno dopo anno, grazie alla loro generosità e fiducia: quando si è trattato di farne un racconto non c’era che da fare ordine. Ed è stata un’impresa, perché il materiale era pressoché inesauribile...
Prima di tutto, abbiamo ripreso in mano il girato di dodici anni. Quando Giulio ha iniziato a pensare che la "gente del viaggio" meritasse di essere raccontata ha coinvolto un regista, Emanuele Tammaro, e iniziato con lui a documentare la sua famiglia e la vita dei Dritti; poi è arrivato Marco e il lavoro è proseguito con lui.
Questo materiale è stato preziosissimo, prima di tutto perché arricchisce il racconto permettendo di vedere i narratori evolvere nel corso del tempo, ma anche perché conteneva già alcuni elementi forti su cui lavorare, embrioni di storie, tematiche da sviluppare.
Poi abbiamo scalettato gli argomenti e individuato tre linee principali che sapevamo di dover intrecciare tenendo d’occhio la cronologia: il mondo degli esercenti dello spettacolo viaggiante dalle origini ad oggi; la storia dei Monti Condesnitt, una delle più celebri famiglie di Dritti di Puglia; la parabola di Amilcare, l’unico figlio maschio in cui i Monti Condesnitt riponevano le loro speranze di dare un futuro al mestiere. Su queste basi abbiamo poi predisposto le interviste ai protagonisti.
Credo la commistione di generi e temi sia in parte frutto di un’idea condivisa e costruita nel tempo, in parte il prodotto di un confronto schietto fra visioni diverse, compromessi e anche animate discussioni cui non ci siamo mai sottratti. Giulio è l’intelligenza e il fiuto, sempre pronto a spiegare le dinamiche più indecifrabili, a svelare l’altra faccia delle cose, il prestigiatore che tira fuori dal cilindro le storie che servono al momento giusto prevedendone il senso e l’effetto. Marco è l’artista capace di slanci creativi che esplodono in tutte le direzioni: ha scritto, disegnato, lavorato alle musiche, trovando la cifra giusta per restituire anche a livello formale la poesia e il fascino del racconto. Io sono la meno romantica dei tre, la meno preoccupata che la componente crime soffocasse la magia, quella delle scalette, della coerenza logica, della struttura. Questo non perché abbia meno cuore ma perché, da sceneggiatrice, quando sono alle prese con una storia mi vien spontaneo controllare, con un occhio se la stiamo rispettando, con l’altro se stiamo rispettando chi la vedrà.
Questa cosa si capisce? Questo passaggio annoia? Da questi tre approcci, e svariati litigi su cui ridiamo ancora molto, è emerso poco alla volta un equilibrio che ci ha portati, ad esempio, a rinunciare ad alcune storie di cui eravamo innamorati, ma che avrebbero finito per perdersi nel disegno generale, a convertire l’iniziale idea di inserti narrativi di animazione in grafiche animate, o ad aprire digressioni non direttamente funzionali a far avanzare la storia, ma che creano empatia con i protagonisti.
Personalmente, li ho amati tutti e qualcuno mi è rimasto proprio nel cuore.
Di Giulio ho già detto molto, ma la stessa disponibilità, apertura e fiducia di cui m’ha investito l’ho ritrovata in tutte le persone che mi ha presentato. Fin dal mio primo arrivo a Lama sono stata avvolta da un’ondata di calore e sì, tantissima umanità. Mi sono sentita a casa, catapultata in famiglia. Ho passato più di una notte a parlare con Ketty e Manola sui gradini del campino o al tavolo all’aperto, con la brace che si spegne; m’hanno fatto sentire una sorella aggiunta.
Ketty è irriverente, energica, senza mezze misure. Manola di una dolcezza irresistibile, luminosa, onesta. Sembrano diversissime, ma nessuna delle due ha paura di dire quello che pensa e tantomeno di esibire fragilità e ferite, una qualità molto rara e molto nobile. Di Vlado che dire? Ogni sua frase diventa un tormentone. Ogni mattina al mio "Buongiorno!" si girava armeggiando con qualche arnese in mano e dopo una pausa ad effetto bofonchiava: "Ma va vafanculo!", pregustando la mia reazione. Irresistibile. Sono narratori nati, mai banali, e sono sempre stati la nostra certezza: nella docuserie potevamo toppare tante cose, ma di protagonisti così non se ne trovano tutti i giorni.
La più forte, perché ritornante e precisissima, è quella del leone. Ci sono dei leoni di pietra che sormontano l’ingresso del terreno di Amilcare; a Manola il fratello disse: "Ho dovuto diventare un leone per difendere le mie sorelle". Anche Giulio parla di sé come di un "leoncino" che seguiva lo zio per imparare a sopravvivere nella giungla.
È un’immagine importante per due motivi: prima di tutto l’identificazione di Amilcare con il "Re" della giungla illumina un aspetto della sua psicologia, una certa ambizione e inclinazione al dominio che caratterizza la sua parabola, come emerge nel corso delle puntate. Ma è una metafora che ha anche il pregio di ribaltare il punto di vista dando l’idea che per i giostrai sia il mondo fuori dai mestieri e dal terreno, cioè il mondo dei Contrasti, quello davvero minaccioso, e non il contrario, come in certi pregiudizi faciloni che li riguardano.
Nel paesino da cui provengo, sepolto nel profondo Nord, tradizioni come queste si stavano perdendo già quand’ero piccola. C’erano, sì, qualche volta, i tendoni piantati lontano, qualche ruotina panoramica che si stagliava un po’ triste sullo sfondo di una zona industriale, ma le feste patronali non sono sentite allo stesso modo che in Puglia e al Sud.
Mi sono fatta una cultura, lavorando coi ragazzi, imparando il nome di ogni attrazione e recuperando "da grande" un amore per quel mondo. Adesso voglio andare sempre sull’autoscontro e ovunque vada se vedo le giostre mi soffermo un po’, conto i camion parcheggiati, guardo chi ci lavora...
Sono stati due lavori diversi, perché a "SanPa" sono arrivata da un certo punto in poi, a struttura già definita. Inizialmente, dovevo solo trascrivere il materiale di repertorio e poi, di compito in compito, mi è stato riconosciuto un ruolo di assistente degli autori. Oltre che un’esperienza incredibile sul piano umano è stato anche un corso accelerato sul campo su come si lavora a una docuserie, come si organizzano i temi, si compilano le interviste, si gestiscono le informazioni…
Con "I Re del Luna Park" invece si partiva da zero, ed è stato un lavoro quasi artigianale, tanto più che si era fra amici che si frequentavano anche prima e dopo l’orario di lavoro. Non trovo grandi differenze fra la scrittura di una docuserie e di una serie di fiction, hai sempre archi di trasformazione dei personaggi, atti (cinque, anziché tre come in un film), cold opening all’inizio, cliffangher alla fine. È chiaro però che quando hai a che fare con la realtà e persone in carne e ossa hai una responsabilità in più nel non tradirli e piegarli a forza alle tue esigenze narrative. Anche se poi adoro Herzog quando fa esattamente il contrario...
Molta semina, al momento, di cui non parlo per scaramanzia, ma dopo tanto documentario stavolta si tratta di fiction. C’è un film in particolare, di cui sai già tutto, cui tengo moltissimo e per cui cerchiamo un produttore: parla dell’incapacità dei contemporanei di affrontare il dolore.
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